sabato 19 aprile 2014

Il racconto di un ragazzo che non c'è più. #5

5.

Il tempo scorreva lento e incolore, placido sul letto liscio della sua vita. Il tempo gli passava affianco e gli sorrideva beffardo, un treno di fumo che non sostava da nessuno parte, o eri dentro, o non ci saresti potuto salire, quasi non avessi i requisiti richiesti, quasi non avessi superato una qualche prova, marchiato del nulla.

Molte volte si soffermava ad osservare le persone, lì, su quella panchina lungo il fiume vicino al ponte di ferro. Quel luogo era il posto dove lui si rifugiava quando il silenzio muto della sua vita lo stordiva. Si sedeva su quella panchina e mille domande eruttavano dall'attaccatura dei suoi capelli. Voleva capire come facevano, le persone, dove prendevano la forza di procedere. Le vedeva camminare e sorridere, e si chiedeva se ciò che facevano fosse reale, voleva sapere se dietro quel sorriso c’era qualcosa, voleva scoprire come facevano a camminare a testa alta, lui non ci riusciva, aveva paura di ciò che avrebbe visto.
Ha sempre ritenuto di essere un ottimo attore, o forse un egregio bugiardo, lui quel suo vuoto interno lo nascondeva, la celava al sole e agli occhi di tutti. Nascosta tra lo stomaco e la spina dorsale tratteneva la sua paura, era quella morsa che lo attanagliava quando a volte una voglia di volerci provare avanzava in lui. Quest’ammasso nero travestito da esperienza gli bloccava i piedi, e poi le mani, fino ad arrivare alla parole, ai pensieri, lasciandolo nudo e incapace di continuare. Lui aveva paura, era come se dopo aver visto casa sua ardere nel fuoco, non volesse più accendersi una sigaretta, come se c’ho che aveva sofferto gli avesse scavato nella mente una specie di fobia di vivere, e lui, terrorizzato, si nascondeva dietro ad una maschera di cera, in attesa di qualcosa che non sapeva se esisteva.

Quel pomeriggio era molto caldo, uno di quei caldi che sembrano risucchiarti le forze, uno di quelli che sembra ti si sdraino addosso appesantendoti le gambe e le braccia, lasciandoti inerme. Le foglie degli alberi si muovevano inspiegabilmente sospinte da un vento che non esisteva, l’aria era pesante, entrava nei polmoni a gomitate rendendo difficile il respiro. Stefano era andato da lui quel pomeriggio, come quasi tutti i giorni, e verso le 5 avevano deciso di uscire un po’ e andare al boschetto vicino casa. Camminavano dalla parte ombrata del marciapiede, quasi come se, tornati bambini, giocassero ad uno di quei giochi di fantasia che si fanno da piccoli, nei quali non si deve toccare la linea delle mattonelle, o si deve camminare precisamente su di una linea retta a costo di morire cadendo in chissà quale terribile abisso. Stefano interruppe il silenzio tagliando l’afa con le sue parole: “Tu cosa saresti disposto a fare per provare un brivido in questa vita? Sai, l’altro giorno ho visto un film che parlava di eroinomani, cazzo, tu dirai che si sono rovinati la vita con quella roba, ma loro ad ogni dose provavano qualcosa che noi non potremmo mai provare.” “Ci sono tante altre cose che noi non potremmo provare, e forse quelli che si fanno non provano qualcosa che noi possiamo invece, non so.” “Nel film dicevano che l’effetto dell’eroina e come quello di un orgasmo moltiplicato per mille, detta così mi verrebbe quasi da provare!” “Non dire cazzate dai Ste, valà.” “Scherzavo è logico, ma penso che se fossi malato e mi dicessero che ho due mesi di vita, tra le tante cose che vorrei fare ci sarebbe anche questa. Tu invece che vorresti fare in una situazione simile?” “Non lo so, non ci ho mai pensato. Ultimamente ho pensato invece a cosa succederebbe se morissi. Sarei curioso di vedere se qualcosa cambierebbe, alla fine noi abbiamo fatto qualcosa per rimanere indelebili? Forse le persone a cui siamo stati vicini ci ricorderanno, ma nelle loro vita cambierà qualcosa se noi morissimo? Sarei curioso di vedere chi verrebbe a salutarmi per l’ultima volta, chi lo farebbe dispiaciuto sinceramente e chi no, chi piangerebbe per me.” “Bah, io farei una festa penso..” “Non ne avevo dubbi!”.

Anche quel pomeriggio come tutti gli altri passò tra risate e parole, sorrisi che sapevano di amicizia. Lui e Stefano erano così diversi, ed è per questo che era così forte il loro legame. Stefano era una persona di compagnia, sempre con la battuta pronta, aveva bisogno sempre di gente intorno perché la sua maggiore paura era rimanere solo. A volte poteva sembrare quasi volesse solo farsi vedere, ma non era così, Stefano non voleva ritrovarsi senza nessuno affianco e quindi rendeva tutto ciò che diceva o faceva il più interessante possibile per tenere vicine le persone. Forse aveva paura di rimanere solo con se stesso, non voleva sentire ciò che aveva da dirsi, aveva paura che il pensiero di Elisa sarebbe ritornato a galla per schiaffargli in faccia quel sentimento complicato che per adesso teneva nascosto sotto maree fredde di altri pensieri. Lui invece non è che non era di compagnia, anche a lui piaceva stare a contatto con le persone, ma a differenza di Stefano, conosceva la solitudine e non ne aveva timore. Ha sempre ritenuto che a volte un momento di raccoglimento in solitudine può servire, per fare un po’ il punto della situazione, per capire dove andare, cosa fare, è in questi momenti che lui si ritrova a scrivere. Quando si ritrova solo a pensare, le sue sensazione si amplificano, quasi come se ne alzasse il volume al massimo, e come se questa musica di emozioni prendesse la sua mano e la muovesse, incomincia a scrivere. Sentimenti in parole, solo la poesia può farlo, prendere un qualcosa, anche di minuscolo o di quotidiano, e renderlo indelebile, perfetto nella sua semplicità. Forse era proprio perché nascevano nella solitudine che le sue poesie rimaneva lì, senza che nessuno le leggesse, solo Stefano ed Elisa ne avevano lette alcune, ed entrambi ne erano rimasti colpiti, alcune parlavano anche di loro, del loro amore, se le si annusavano si sentiva la loro voce, il loro profumo, erano poesie di una vita. La maggior parte di esse però raccontavano dell’amore di lui per Alessia, quel sentimento così grande che è riuscito a bloccare la sua vita. Rileggendole si sentiva come quando cadi per terra dopo che hai provato a sederti, ma qualcuno ti ha levato la sedia da sotto, si sentiva tradito, perso senza nessun punto di riferimento, ed era per lui come una cura, era così che si ricordava ciò che aveva passato e lo teneva come modello per non commettere di nuovo quegli errori, lui era come se si graffiasse un dito per ricordarsi ed evitare di tagliarsi di nuovo tutta la mano.

 G.R.


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