sabato 29 marzo 2014

Il racconto di un ragazzo che non c'è più. #2

2.


Apre gli occhi, è mattina. Le poche ore di sonno di quella notte martellano le sue palpebre quasi per vendicarsi. La sua bocca sa di acido e sigarette, le sue orecchie si stappano quasi come fossero appena risalite da un’immersione, uscite dal silenzio dell’oceano al frastuono del mondo. Silenzio. I suoi pensieri si riaccendono, benzina sul fuoco, è sveglio. Scivola fuori dal letto, è in piedi. Si accende una sigaretta e aspira forte, il fumo lo riempie, un brivido gli cavalca la schiena fino alla nuca e poi scompare fra i suoi pensieri. Si mette in piedi e cammina dondolando quasi si fosse dimenticato come si fa, arriva in cucina e un frammento di cenere cade a terra leggero. Dal naso sanguinano pensieri. Il caffè esce mormorando, quasi fosse un gemito della moka. Lo beve amaro, una tazzina di caffè nero, vuole sentire l’aroma sulla lingua. Quella stessa lingua che avrebbe un milione di cose da dire, da urlare, a volte gli verrebbe voglia di prendere una penna e scrivere su tutti i muri, avrebbe pensieri a sufficienza.

Poesia, è il suo unico sfogo, troppe volte ha vomitato su quei fogli bianchi tutto quell’ammasso che abita la sua testa, troppe volte ha sfondato quelle pagine di parole, a volte pensava potessero cadere giù dal foglio da quanto pesavano. Erano bagnate da lacrime d’inchiostro, erano il cimitero dei suoi pensieri, erano frammenti della sua anima che mai più qualcuno avrebbe visto, erano pezzi di lui. Pagine e pagine di sangue caldo, di ricordi, di quei piccoli momenti di vita che conserva ancora fra gli occhi e i suoi pensieri, quelle immagini che aprendole scoppiano di malinconia.


Poesia

Lacrime d'inchiostro
scivolano
sulle candide vittime
del mio dolore,
testimoni
di quest'amore che non sarà
mai.
Sfogo
dei miei pensieri,
cimitero
dei miei sogni,
tracce d'anima
che nessuno mai più vedrà.
Pagine e pagine di sangue caldo.
Istanti
che rimarranno
immobili,
fin quando non avranno di nuovo
un senso.


Fuori ha appena piovuto, l’odore di asfalto bagnato gli è sempre piaciuto, gli ricorda l’estate. Un passo insegue l’altro, guarda per terra, si è accorto che non ha mai alzato gli occhi camminando, quasi volesse prendersi una pausa dalla visione di tutto ciò che ha intorno. Un milione di piedi che si muovono, in quel momento era quello il mondo per lui. Ha sempre avuto una sorta di diffidenza verso il mondo, lo ha sempre guardato a distanza perché da lì può pararsi dai colpi. Avanza trascinandosi le gambe dietro, due piedi tra tutti gli altri si fermano. Alza la testa, e una bocca come tante altre gli spara in faccia una domanda: “Ciao! Come stai?”. Poche volte a questa domanda ha risposto con sincerità, non sa il motivo, forse erano le altre domande che sarebbero scaturite dalla sua risposta a spaventarlo, forse era semplicemente che non gli interessava far vedere qualcosa in più della sua facciata esterna, o forse aveva paura di rispondere sinceramente, di mostrare che in quel momento ero ferito, acciaccato, insomma attaccabile. E quindi ricorreva alle risposte preconfezionate, a quelle che ti escono fuori ancora prima di decidere se dire o no come ti senti davvero, “bene, grazie, tu?”, e schiva l'ostacolo, evita con un buffo balzo il pericolo di esporsi, si salva insomma.
“Come stai?!”
Il problema è che non ricorda l'ultima volta che non abbia schivato quell'ostacolo, che non abbia mentito, perché è di mentire che si parla, di fingere di stare bene, di mettersi una maschera, una di quelle con un bel sorriso a 32 denti stampato sopra, una di quelle che da un po' di tempo indossa, al sicuro dietro quel sottile strato di finzione, in attesa che le ferite si rimarginino.
“Come stai?!”
Arriva il punto in cui neanche “male” è la risposta adatta alla situazione in cui si trova, semplicemente si è abituato, si è creato un posticino talmente comodo dietro quella maschera che non sente neanche più lo stimolo di provare a cambiare qualcosa. Si è abituato, si è accontentato, è arrivato al pensiero che alla fin fine l'importante è che non peggiori, che anche se nell'ombra l'importante è che ci sia un equilibrio, un punto da cui non si possa scendere ancora, il fondo insomma. E allora continua a recitare, a sorridere ma non ridere, a mostrarsi in un modo e appena dopo aver girato l'angolo a ritornare in quel grigiume, ne bianco ne nero, si, perché non sta ne bene ne male.
“Come stai?!”
Lui sta, semplicemente.

G.R.



lunedì 24 marzo 2014

Guarda

Guarda,
è solo un altro pugno di te
che lasci per strada,
lo pettini e lo sistemi,
lo spedisci all'ennesima persona sbagliata
che se lo girerà fra le dita
solo qualche secondo.

Guarda,
è solo l'ombra
della solita sensazione
sì, quella che chiami per nome,
te la sei cucita ai tacchi,
non si stacca più.

Guarda,
Sei solo tu, smettila,
non hai fatto nulla
per non meritartelo.

Guarda,
cisterne di pensieri
sotto i tuoi capelli,
quanti litri saranno?
Non affogare.
Gli sei ancora utile,
sai trattenere il respiro?

Guarda,
arriva, mettiti come piace a lei,
e falla godere a quella puttana della vita.

Si, ancora, ancora.



G.R.

sabato 22 marzo 2014

Il racconto di un ragazzo che non c'è più. #1

Questo è un racconto che ho scritto parecchio tempo fa, attorno a lui ci sono sempre stati tanti dubbi da parte mia. Voglio farvelo leggere, un capitolo alla volta, ogni settimana ne caricherò uno, sperando che voi riusciate a sciogliere ogni mio dubbio.




“Il racconto di un ragazzo che non c’è più.”


1.


Buio. Silenzio. Nell'altra stanza solo il rumore della lavatrice. Quel rumore rotondo, meccanico. Gli piace un sacco quando, nel bel mezzo della notte, parte la centrifuga. Il cestello carico di vestiti fradici incomincia a vorticare rapidamente. Buio, silenzio. Un unico rumore esiste, ed è quello della lavatrice nel bagno. La centrifuga è partita. A vorticare insieme ai vestiti ci sono i suoi pensieri. Tra una mutanda e un calzino sente parlare di lei. Poi si accorge che non sono solo i suoi pensieri ad essere centrifugati, ma anche la sua testa. Rotola nel cestello sbattendo di qua e di là. E infine, accade. In quella lavatrice ci entra tutto, per intero, è dentro. Dal primo pensiero più ribelle che cerca d'uscirgli dalla testa, all'ultimo centimetro di pelle del palmo del piede. Immerso. L'acqua e il detersivo gli entrano nel naso, nella orecchie, in bocca. Dentro.  Vuole vedere se riusciranno a sbiancare quell'anima scura che da un po' si porta dentro. Dovrebbero disinfettare quel vuoto che lo accompagna. Vediamo se cancelleranno ogni traccia di quel suo senso di disillusione. Si, è da un po' che non crede più a nulla. 

Nulla.



G.R.

Il buio passerà

Sazierò la tua noia con un bacio,
ma poi lo riprenderò,
così sarà sempre una sorpresa.
Vorrei cancellare il retrogusto amaro
del tuo presente raccontandoti storie di
oceani profondi come i tuoi occhi e
cieli aperti con un sospiro.

Sapresti vivere tra le pieghe calde della mia mano?

Per paura di perderti
ti nasconderò tra il cuore e la giacca,
insieme alle poesie che ancora non ti ho scritto.
Mi bagnerò dei tuoi temporali di insicurezze
e scalerò le tue paure
per veder scoppiare sul tuo viso
il rosso della tua bocca.
Torneremo in quella scalinata buia e
giocheremo a rincorrere i pezzi d’anima
che ci siamo scambiati in quel bacio lungo.
Dimmi dove sbaglio ed io cancellerò
le impronte storte
che ha lasciato su di te il mio carattere.

Stringi forte la mia mano, il buio passerà.


G.R.

giovedì 20 marzo 2014

Le ragazze stanno bene

"Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell'Africa. Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia. Forse si tratta di fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa."




Le luci della centrale elettrica 

mercoledì 19 marzo 2014

Il tuo nome

E verrà a piovere dal soffitto
perché i tuoi occhi sono
troppo azzurri,
e noi anche in
mezzo ad un temporale faremo
l’amore, e
il cielo si squarcerà
della nostra passione,
e il nostro respiro risveglierà
il tempo che si addormenta
sulle tue labbra come
un bacio.
E vorrei urlare
il nostro amore nel vento,
ma non lo farei
per paura di poterlo sprecare,
e disegnerei
le tue mani fra le mie
per averti vicina anche quando non ci sei.
Ho ritrovato il mio sorriso
unendo i nei della tua schiena,
ed ho usato i nostri sogni
come colla per lasciare
indelebile
sulle pareti del mio cuore
il tuo nome.


G.R.

lunedì 17 marzo 2014

L’essenza

Non chiedermi di scriverti poesie,
Perché parole non trovo che possano sagomare
Il tuo essere donna e bambina tra le mie braccia.
E allora guarda
Come in silenzio il mio sguardo scivola
Negli anfratti delle tua morbidezza, e capirai.
Non chiedermi frasi che ti parlino del mio amore,
Perché su di esso ci cammini ogni giorno.
Non posso scriverlo in rima perché te lo sussurro
In ogni sospiro dei nostri scambi di pelle.
Potrei scrivere mille parole
Senza mai riuscire a dirti le più importanti,
Potrei vagare nei vicoli affollati di una poesia
Senza mai imprimere nella penna il sapore salato
Della tua femminilità.
E allora ascolta
La nostalgia delle mie labbra
Quando non trovano più le tue, e
I pianti soffocati delle mie mani
Che si tagliano sul ruvido del mondo
Quando si allontanano dalla tua pelle
Increspata di desiderio.

Il mio amore è un bisogno, è
L’essenza del mio non essere nulla, è
La legittimazione del mio vivere.

Come quando non avendoti ancora, avevo paura di perderti.



G.R.

giovedì 13 marzo 2014

I capolavori inesistenti.

Era un sabato sera come tutti gli altri, lo chiamavo sabato, ma solo perché mi avevano insegnato che il giorno dopo venerdì e prima di domenica si chiamava così. Un immagine rubò il mio sguardo, una piccola sbavatura della realtà, un'anomalia. 

Sedeva in un tavolo in disparte un signore sulla cinquantina, barba incolta, capelli arruffati e la faccia di chi aveva visto troppo da vicino la vera faccia della vita. Il suo sguardo era come se vedesse oltre gli schiamazzi inutili della gente che lo circondava, era come se fosse solo in un bar dove il tempo era assente, immobile, come se avesse inciampato durante la sua feroce corsa e avesse scoccato il suo ultimo secondo, da quel momento non esisteva più. L'uomo era in silenzio, accanto a lui uno zaino sgualcito dal quale spuntava una rana di peluche malconcia che sembrava avesse vissuto insieme a lui la maggior parte della sua vita, muta, gli occhi spalancati all'infuori, era l'unica che avesse mai capito il silenzio intenso dell'uomo.

L'uomo incominciò all'improvviso a muovere le mani come se stesse facendo una delle tante cose che una persona qualunque nella sua routine quotidiana fa senza neanche pensarci. È come se stesse cercando di fasciare la gamba del tempo che inciampando si era ferito, era concentrato, attento ad ogni piccolo spostamento delle sue mani, era quasi maniacale, se riteneva di aver sbagliato un qualche particolare movimento lo ripeteva fin quando non lo riteneva ben fatto. 

Ci misi un po' a capirlo, poi notai che l'uomo senza tempo stava scrivendo con una macchina da scrivere che non esisteva, piano sussurrava le parole da scrivere soffermandosi a volte a pensare, come se avesse perso il filo del discorso. Muoveva le dita in modo veloce, battendo a macchina un pensiero che forse gli stava per scappare dalla mente. A volte si bloccava, alzava lo sguardo assorto, e rileggeva la pagina che aveva appena scritto per vedere se il testo lo soddisfaceva, o semplicemente se per caso gli era scappato qualche errore di battitura. Una volta scorsa tutta la pagina riprendeva a scrivere, sembrava quasi che, riempitasi delle parole dell'uomo, l'aria incominciasse ad appesantirsi, densa di pensieri. Forse l'uomo scriveva una lettera, o una poesia, magari la lista della spesa, o forse scriveva di me che lo fissavo e nella mia mente anche io, con una macchina da scrivere immaginaria, scrivevo di lui.

Avrei voluto tanto sapere cosa stesse scrivendo, poteva essere il più grande libro mai scritto, eppure nessuno l'avrebbe mai letto, nessuno avrebbe mai potuto regalarlo a natale a qualche parente, nessuno avrebbe mai potuto leggerne il finale, e neanche l'inizio. 
Nessuno avrebbe mai potuto ridere, piangere o semplicemente leggere le parole dell'uomo con la rana di peluche, che scriveva i suoi capolavori con una macchina da scrivere inesistente.


G.R.

martedì 11 marzo 2014

L'inizio.

Ha perso tanto, ma ha guadagnato tutto lui.

Girandosi ride pensando a quante lacrime si sono asciugate; non rimpiange quello che è stato perché quello che è stato lo ha colpito e accarezzato e non cambierà, sarà il manifesto di una stagione passata, di un pezzo di vita che si è inchinata al tempo che non perdona.

Da tutto questo ha imparato che per i rimpianti non c’è mai spazio, che chi porge troppo spesso l’altra guancia non riceverà altro che schiaffi. Ha imparato che dai temporali non ci si asciuga mai del tutto, e che le sigarette possono essere tue amiche se sai parlarci, il tempo invece no, non ti regala neanche un secondo. Il cielo è solo il riflesso di un paio di occhi, e l’amore delle lenzuola sudate. Sui ponti puoi inciderci i ricordi di un’estate, e dove muoiono parole nascono silenzi che urlano.

Tu sogna pure se ne hai voglia, ma gli occhi tienili aperti, perché si può morire anche dormendo, ma tu fallo lo stesso.

Ha imparato che negli angoli non c’è sempre un castigo, a volte è l’unico posto con le spalle coperte. E non bisogna farsi scrupoli, perché il mondo è degli stronzi, e la vita è un insieme di scelte, destra, sinistra, non importa, basta camminare.

Questo è il racconto di un ragazzo che non c’è più, è morto trafitto da due lampi azzurri che sono gli occhi della persona che lo ha salvato. Ora dalle sue ceneri è nata una nuova persona, qualcuno che finalmente ha capito cosa vuol dire vivere.


G.R.


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